Lunar Aurora – “Andacht” (2007)

Artist: Lunar Aurora
Title: Andacht
Label: Cold Dimensions
Year: 2007
Genre: Atmospheric Black Metal
Country: Germania

Tracklist:
1. “Glück”
2. “Geisterschiff”
3. “Dunkler Mann”
4. “Findling”
5. “Der Pakt”
6. “Das Ende”

Esiste una sola anima, universalmente diffusa,
che, uscita da questo mondo, emigra verso gli astri.
Essa sospira nel vento,
stride nel marmo che viene distrutto,
urla con la voce del mare.

Se il mondo è davvero l’opera di un dio in delirio, se il mondo è davvero l’opera di un grande Demiurgo costruttore dei cieli e del Diavolo, allora egli non può che apparire come un alterato, schizoide e sinistro negromante che, promuovendo la perfetta identità ermetica tra genesi e travaglio alchemico di nigredo, dà vita a quella fase di transizione, di trapasso psicologico e dell’abbattimento che conduce attraverso i domini della notte ad un mondo visionario e febbrile d’immagini in continua trasformazione, come in un sogno ad occhi aperti; ma, a sua volta, il frutto della sua tribolazione è così perfetto, così armonico, che non potrà mai scendere a patti con il padre e con ciò che egli ha riservato lui per l’eternità. L’unica possibilità, dunque, risiede nel correre con il tempo al fine di attingere ad un cielo stellato ricolmo di speranza.

Il logo della band

La creazione dell’universo e l’angoscia della genesi equivalgono in ambito alchemico alla trasformazione della materia; mentre, sul piano psicologico, ciò avviene nella trasformazione junghiana che si svolge nella mente del malinconico. Lungi dal valutare l’equilibrio psico-emotivo di chi, quale novello Prometeo, dà soffio vitale all’arte, tuttavia, è necessario che un sistema sì intricato, autoreferenziale, e ciononostante polimorfo, presupponga un misto di genio e tanta esperienza. Dopo più di dieci anni di gavetta, non resta dunque più un caso che i Lunar Aurora concepiscano forse il loro disco più difficile in termini di stratificazione interna e di elaborazione ritmica. Penultima uscita di una dozzina di capolavori tutt’oggi volgarmente dimenticati in uno scatolone senza etichette né nastro isolante, “Andacht” è invero un organismo complesso, un sistema autoregolato che non ammette alcuna intrusione dall’esterno ma che muta il suo aggregato suono ad ogni ascolto: un complesso perfettamente calibrato e in dinamico mutamento che nulla ha da invidiare al più intricato dei concept album; si tratta cioè di un lavoro estremamente articolato, le cui giunture si sciolgono verso il cuore e si cristallizzano ai vertici esterni in un elegante gioco dialogico con le creazioni di un’intera carriera – e non solo quelle rilasciate fino a quel punto marchiato 2007. Non è un caso quindi nemmeno che le tastiere umide della splendida “Geisterschiff” trovino una corrispondenza univoca con quelle di “Into The Secrets Of The Moon”, scrigno nel cuore del “Weltengänger” scritto almeno undici anni prima, né che la stessa alonatura locale così tipica anche degli altri brani trovi poi eco nel successivo “Hoagascht”, quasi ne fosse una premonizione. Non si tratta solamente di una pedissequa ripresa volta a mascherare un’altrove tanto anelata cifra stilistica, ma una riflessione metalinguistica sulle predilette modalità per esprimere messaggi talvolta agli antipodi – anche se, in fondo, cosa allontana il rantolo del “Nachteule” che confessa i propri peccati alle cime morbide dei più giovani abeti, rispetto al mortifero proselito del “Dunkler Mann”?

La band

Eppure la brillante crisalide di “Andacht” rimane anche un gioiello che brilla solo ai raggi di una luna piena e che con un soffio -quello stesso souffle qui conduit les êtres et aussi dans les sphères– fa svanire nel nulla atemporale i quasi cinquantaquattro minuti che scandiscono inesorabili lo scorrere della sua musica; perché di fine ineluttabile e di bellicoso raffronto con sua maestà il Tempo pur sempre si parla. Se si ritorna per un attimo ad indossare le lenti opache dell’alchimista, ci si accorgerà della presenza nell’alambicco di un elemento fortemente simbolico ad accompagnare la malinconica meditazione che i fratelli König (qui accompagnati dal one-off Skoarth degli Odem Arcarum) conducono nel mondo visibile e in quello invisibile, sulla terra e nei cieli abitati dallo spirito: si tratta della ruota, uno strumento forse ripescato nel retaggio visivo-culturale spiccatamente bavarese (chi non ha in mente la “Melancolia I” di Dürer?), che assomiglia più ad una macina che non ad una ruota di carro per alludere sì al concetto di ciclicità, ma anche, secondo appunto la sua etimologica funzione di macinare, alla metaforica e fisica triturazione, alla distruzione della materia stessa. Temi, quest’ultimi, che tornano spesso nei testi dei Lunar Aurora e che qui manifestano tutta la loro cangianza nell’apertura “Glück”, dove i cori monastici cercano la Salvezza mentre la ruota del destino, infallibile meccanismo ad orologeria del grande Tempo, rompe denti e ossa. La struttura circolare torna tuttavia anche al principio di “Findling”, dove gira vertiginosamente ancorata al perno di un mulino illuminato dal chiaro di luna e stridente nel proprio scheletro ligneo. Die Sache will’s, die Räder laufen… Die Sache will’s, die Winde raufen: l’incessante e ciclico procedere del meccanismo-destino non è tuttavia un mistero autoindotto, non è un principio magico che sprigiona la propria forza universale in completa autonomia, ma si tratta di un male stimolato, avviato e accompagnato nel suo movimento da un’entità che è quella del Demiurgo stesso. Le sue fattezze ricordano ora quelle del pagano Dioscoro che, dopo aver rinchiuso la figlia in una torre e scoprendola convertita al Cristianesimo (proprio quella Santa Barbara diventata figura di culto importante nella religiosità più popolare nella Baviera della band), sogna di ucciderla torturandola invano con fuoco, coltelli e spine. È la torre in cui l’umanità in toto è chiusa, vinta dalla propria terrena sofferenza, e che ritorna in “Das Ende” quale più etereo tentativo ultimo di congiunzione con il firmamento, alfa e omega di un’esistenza tediata ed esasperata che non può più stare reclusa al di qua di una lucente soglia d’argento che deve essere scardinata per consentire una limpida e sgombra visione delle stelle; è la torre su cui vuole danzare in “Der Pakt” quel figlio tanto perfetto che altri non è che quel “Dunkler Mann”, che si macchia di plurimi e gratuiti omicidi, una peste che scende dalla foresta profonda seminando morte tra valli e colline sotto le note rigide di un giro di basso la cui severità riproduce la velenosità della risata che fa da contrappunto ad un sintetizzatore che emula dolcemente le corde di una viola, o il fiato di un oboe soffuso nella lontananza ovattata; un uomo la cui terribile indole scaglia frecce il cui fruscio si lega in un inanimato sposalizio con la campionatura dei suoni lignei di “Geisterschiff”, un pendaglio da forca la cui furia semina il terrore nelle anime che cantano all’unisono in un coro dal ritmo ipotattico, incredibilmente spigoloso e viscerale. Più un mostro che non un uomo, in effetti, ma che ha per sua natura un cuore così puro, una volontà così pura, che non può non sopraggiungere l’invito a lasciar serpeggiare i propri istinti allo scoccare di una formula rigidissima (So wüte nun durch die eins, zwei und drei!) in una notte senza stelle, dove nessun astro canterà e solo la luna potrà singhiozzare i propri lamenti. La sostanziale innocenza di questo omicida viene confermata in “Der Pakt”, dove è lo stesso Dio-Demiurgo a parlargli inducendolo a firmare un accordo con inchiostro di pece e zolfo, un accordo che dovrebbe proteggere da ogni sacrilegio svanendo in una nuvola di cenere ma che preannuncia in realtà sventura: un nefasto destino segnato da un ritrovato incontro tra padre e figlio scaturito dall’invocazione di quest’ultimo verso il proprio progenitore – può “Andacht” non voler dire anche “preghiera”, “veglia” o appunto proprio “invocazione”?
Tu balli con la tempesta, allora chiamami… Piccolo verme, [e] nessun fuoco ti poterà più dolore: è questo l’ordine che il padre impartisce alla sua nera prole in uno scambio dialogico tra due voci profondamente diverse, l’una più graffiante, l’altra soggiacente all’ombra, su uno sfondo di sintetizzatori a barlumi interrotti solo dal candore di un coro di voci dallo spirito monacale che avevano già introdotto “Glück” creando un atmosfera all-over con trama e sfondo in osmotica compenetrazione. In blavatskyana memoria “l’uomo nero” destatosi nel quinto brano è un torvo e truce Prometeo che non viene punito dal padre per avergli sottratto il fuoco da donare all’umanità, ma che con coraggio (siamo ormai -a tutti gli effetti- in “Das Ende”, dove rantoli rabbiosi cercano il proprio doppio nei nervosi lamenti preistorici di “Geist Ist Teufel” spezzando il suono di sintetizzatori à la “Hvis Lyset Tar Oss”) porta la luce degli astri. È colui che riesce ad affrancare l’uomo dalla sua nefanda esistenza, a scardinare quel cancello lucente, ad evocare quei flussi ardenti che scorrono attraverso l’essere e illuminano l’elmo e lo scudo del cavaliere di “Glück”: come ulula il vento! Come piange la pioggia! Come scorre l’oscurità! Uomo! Dov’è andata la luce?

La soluzione finale non può che trovarsi in quello stesso principio di genesi, in quella controparte che, sfidando l’impossibile e ponendo un termine in un giro uroborico della ruota, riesce a liberare la luce delle stelle nella lama della falce che taglia le gole. In “Findling” sono bastate quattro note di acustica in una tempesta ordinata di voci à la Paysage D’Hiver (uno scambio d’influenze siglato con lo split del cruciale 2004 e proprio nelle tastiere di una buona parte di “Andacht” finalmente ripagato) a risuonare in un appello straziante che finalmente ha da ultimo una sua risposta: la strada è infine stata mostrata, la stella del mattino che taceva nel mar nero di “Geisterschiff” ha finalmente mostrato il proprio barlume sciogliendo gli enigmi dell’errante in “Findling”; solo un atto estremamente umano può dare libertà all’uomo, può mostrare inequivocabilmente l’affrancamento del figlio dalla condizione di subordinazione e vincolo con il padre, può guidare l’anima universale a ricomporsi: Schlage ein… schlage ein! Dieser Pakt bleibt geheim

Sara “Vesperhypnos” Cönt

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